16 febbraio ore 5 e 15, aeroporto di Malpensa, Italia. Stiamo facendo il ceck-in, sempre in ambasce per i chilogrammi in eccesso dei nostri bagagli. Chissà se ci faranno dei problemi o riusciremo alla fine a portare tutto il materiale a destinazione!? Siamo in cinque, un medico e quattro infermieri. Il chirurgo e la laboratorista ci aspettano a Parigi. Loro s'imbarcano a Torino. Ore 10,30, il gruppo si è ritrovato al Charles de Gaulle e ci apprestiamo a salire sul Boing 740. Destinazione finale, che raggiungeremo in 10 ore, l'aeroporto d'Antananarivo in Madagascar. Il viaggio è tranquillo. Unica nota di colore, due spagnoli già ubriachi alla partenza che parlano a gran voce in un qualche dialetto locale. Il volo ci servirà per cominciare a conoscerci, perché due sono con noi per la prima volta. È anche il loro battesimo "in missione".
All'aeroporto d'Antananarivo, Tanà, per chi da molti anni come noi la conosce, ci sentiamo dei privilegiati: ad attenderci c'è Suor Annick, una francese che intrallazza da anni con tutto il personale aeroportuale e ci aiuta a sbrigare le formalità doganali, compreso il controllo dei bagagli in un battere di ciglia. Non sempre siamo così fortunati. Ore 24,00 provati dal lungo viaggio ci addormentiamo di sasso. Programma per il giorno seguente: riprendere l'aereo con destinazione Fort Dauphin, dove arriveremo nel primo pomeriggio e poi il fuoristrada con destinazione finale Isoanala.
La strada per Isoanala è asfaltata per i primi 120 Km, poi comincia la pista: 230 km a una velocità media di 20 km orari. Partiti alle ore 16,00, arriveremo alla meta finale alle cinque del mattino successivo. Lungo la strada, nel tratto il cui la foresta littoranea comincia a essere sostituita dalla foresta spinosa, scorgiamo sull'asfalto un giovane dall'età apparente di 20-25 anni, deceduto da poco. Sembra sia caduto dalla bicicletta e morto per il trauma subito. Forse era ubriaco o forse, come succede anche da noi, un pirata della strada l'ha urtato e fatto cadere. Nel frattempo sta cominciando a piovere. È il ciclone in transito sulla costa est, la cui coda arriva fino a noi. Della gente, attorno al morto, commenta il fatto, ma nessuno osa spostare quel corpo che dovrà aspettare ore e ore l'arrivo dei gendarmi, inzuppandosi d'acqua e polvere.
Quando comincia a tramontare il sole ormai siamo sulla pista e le buche mettono a dura prova il nostro corpo e anche lo spirito. Stiamo attraversando la regione degli Antandroi, una delle 18 tribù malgasce. Sono conosciuti come gente coraggiosa e per questo motivo sono assunti come guardiani da gente benestante che vive nelle grandi città. Le loro case sono poverissime. Capanne costruite con listelli di legno, rialzate da terra e talmente fragili che il vento le inclina. Sono come piccoli torri di Pisa. Servono solo come riparo dalla poggia e per dormire. Tutto il resto dell'attività famigliare si svolge all'aperto.
Siamo circondati dalla foresta spinosa, una delle bellezze naturali di questo paese. Qui si trovano diverse varietà di cactus uniche sulla terra e qui vive la testuggine stellata. Altra meraviglia. Non fa caldo lungo la pista, grazie alla pioggia che imperterrita ci accompagna. Non c'è neppure tanta polvere, polvere che durante il giorno s'infiltra attraverso qualunque fessura dell'auto, si attacca alla gola, entra nelle orecchie e nel naso, ti colora i capelli e ti abbronza la pelle come una crema auto abbronzante. Albeggia e siamo ormai arrivati.
L'ospedale in cui ci troviamo, è una piccola struttura che sorge letteralmente nel mezzo del nulla. Ha 30 posti letto, un laboratorio ben attrezzato per le esigenze del posto, un ecografo e una sala operatoria. L'equipe italiana viene per un mese, due, tre volte l'anno. Non solo medici e infermieri, anche falegnami, idraulici, elettricisti, tuttofare. Dipende dalle esigenze.
Quando ripartiamo il centro rimane aperto e ci sono due chirurghi malgasci con Daniel, l'anestesista, che continuano l'attività. Non sono autonomi sui grossi interventi e su tutta la patologia chirurgica, ma grazie agli specialisti che vengono, con il tempo sapranno gestire tutto il lavoro chirurgico e la nostra presenza non sarà più necessaria. L'importante, per il momento, è che sappiano far fronte alle urgenze chirurgiche più comuni e talvolta banali, ma che qui sono ancora causa di morte, come un'appendicite acuta o un parto cesario.
Il centro sorge nella regione di Betroka, che letteralmente significa "Grande Pancia"! Ci troviamo, infatti, nel centro della bilarziosi, una malattia endemica in questo paese. La gente la contrae quando va a lavarsi o a lavare i pochi indumenti che possiede nel fiume, che attraversa la zona. Questo fiume, che durante la stagione delle piogge straripa e in quella secca si riduce ad un rigagnolo, è fonte di vita perché permette l'irrigazione delle risaie che a decine costellano i dintorni. È, però, anche fonte di malattia e morte per la presenza del parassita che trasmette la malattia.
Questa determina un importante e progressivo ingrossamento della milza, con grave anemizzazione e facilità a contrarre infezioni. Sono queste grosse milze che, causando un ingrossamento dell'addome, hanno dato il nome alla regione. Due anni or sono, ne abbiamo rimossa una di ben 5,8 kg. Una milza normale pesa pochi etti. Sono già quattro gli ammalati ricoverati in attesa di splenectomia. Proprio per le dimensioni della milza e le condizioni scadenti in cui la malattia avanzata conduce i malati, l'intervento è sempre un'incognita e difficoltoso. Fortunatamente tutti se la caveranno senza problemi.